Gonçal Mayos PUBLICATIONS

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Nov 1, 2014

COLONIALITÀ: MACROFILOSOFIA DE DUE STRATEGIE


 
La colonizzazione è stata così negativa? Il mondo coloniale fu così terribile come si dice? Sappiamo che, effettivamente, lo è stato: enormi massacri e rapporti brutali; violenze fisiche, simboliche e psicologiche; persistente esclusione di gruppi umani; subordinazione culturale e depurazione epistemologica; discriminazione razziale. Provocò, in sostanza, danni e sofferenza intensi in quasi tutte le sfaccettature della vita umana.


Ebbene, ascoltiamo anche che la colonialità –in quanto “sistema dei cinquecento anni” (Chomsky, Wallerstein) che solo oggi sembra che si inizi a superare– ebbe non solo questo lato cattivo, ma anche un lato buono. Fino al punto di insinuare –quando non si afferma esplicitamente– che il buono compensa in molti aspetti quello cattivo e che, alla fine, ne è valsa la pena!


Su questa linea si è soliti argomentare, per esempio, che la colonizzazione europea diffuse la “civilizzazione” nel mondo, rese possibile il fatto che i diritti umani arrivassero in posti nei quali – in altro modo – non sarebbero mai giunti e, come minimo, che “promosse lo sviluppo economico” dei popoli colonizzati.


Non ho la pretesa di spiegare nulla a voi riguardo al topos della gratuita estensione europea della civiltà e sul filosofema concernente la benevola propagazione occidentale dei diritti umani. Voglio però segnalare brevemente alcuni argomenti critici sui supposti miglioramenti riguardanti lo sviluppo economico, risultanti dalla colonizzazione. Giacché anche dando ascolto ai meri argomenti produttivisti ed economicisti, la colonialità presenta un sinistro bilancio negativo.


D’altro canto è altresì certo che non in tutti i luoghi la colonizzazione è stata

uguale, così come il suo bilancio finale, anche per ciò che concerne la posteriore evoluzione economica. Si deve essere cauti e analizzare dettagliatamente i casi particolari; si deve però anche alzare lo sguardo, strutturare comparazioni amplie, analizzare macrofilosoficamente i molti processi implicati e sintetizzare alcune conclusioni rilevanti.


Già sapete che a questo (metodo) ho dedicato la maggior parte del mio lavoro e, perciò, vi presento una breve analisi che potremo poi ampliare nel dibattito finale. Inoltre, per evitare le critiche di coloro che possono sostenere che gli studi postcoloniali, a volte, presentino delle pieghe eccessivamente ideologiche, utilizzerò per la mia breve analisi macrofilosofica alcuni studi che godono di un riconoscimento più generale.


In particolar modo mi rifarò alla recentissima analisi comparativa dei professori Daron Acemoglu (professore di economia nel MIT) e James A. Robinson (politologo ed economista all’università di Harvard): Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty. Utilizzerò questo famoso libro e alcuni testi anteriori per analizzare l’impatto della colonizzazione nello sviluppo economico nel lungo periodo dei paesi colonizzati. Mi soffermerò su questo aspetto, evitando altre questioni maggiormente studiate come il saccheggio delle ricchezze, il loro spostamento e l’impatto nella metropoli coloniale e –come ho già detto- le infinite crudeltà della colonialità.


Credo di poter affermare che la colonizzazione cercò di creare o, almeno, di perpetuare meccanismi che rendevano difficile lo sviluppo umano, bloccavano la modernizzazione e che, inoltre, impedirono il progresso economico a lungo termine. Significativamente vedremo che ciò sembra che si superi nei casi in cui la colonialità è stata così brutale e radicale da sterminare la popolazione indigena. Sembra che, solo in questi casi, la colonialità si esaurisca in se stessa, rompendo con la sua dialettica di persistente esclusione e subordinazione, e fornisca così un’aspettativa di sviluppo economico a lungo termine. In altre parole: sterminati i colonizzati, i colonizzatori possono alla fine rompere la dialettica metropoli-colonia e aprire così a una certa post-colonialità, sebbene a costo del genocidio e della pulizia etnica (Michael Mann Il lato oscuro della democrazia. Uno studio sulla pulizia ètnica).


Avviamoci ora verso l’analisi macrofilosofica che associa il fallimento economico a lungo termine e la povertà dei paesi con un tipo di colonizzazione assai

concreto. Vedremo anche come un altro tipo concreto di colonizzazione sembri permettere questo sviluppo economico, però solamente a costo di un genocidio e di una pulizia etnica praticamente totali. Mostreremo come nel primo caso di colonialità si generino e perpetuino delle “caste” o “élites estrattive” (usando la terminologia di Acemoglu e Robinson), le quali si limitano a prosciugare ed estirpare le risorse di una società.


Ed è precisamente per beneficiare di una situazione data (e, come vedremo, intimamente vincolata con la colonialità), queste “élites estrattive” hanno interessi contrari al rendere possibile un maggiore sviluppo umano e agiscono bloccando efficacemente a lungo termine tutta la modernizzazione che apporti cambi contrari al suo dominio e alla sua situazione privilegiata.


Acemoglu e Robinson sottolineano l’importanza –per lo sviluppo economico e umano– del tipo di potere che si esercita e del tipo di istituzioni che si sono costruite nei vari paesi. E noi evidenzieremo il loro intimo vincolo con la colonialità, fino al punto che il circolo negativo delle élites estrattive e la povertà che questo genera si rompe solamente allorquano la colonialità sembra essere superata attraverso la risolutiva e pressoché totale eliminazione del colonizzato, dell’ “altro” coloniale.


Mentre persiste la dialettica coloniale (anche in quei paesi formalmente indipendenti) tra un “noi” e un “loro” (Carl Schmitt), tra i “creoli” e “l’altro coloniale”, allo stesso tempo persiste un’inquietante tendenza secondo la quale le “élites estrattive” –implicitamente o esplicitamente– bloccano le strategie sociali inclusive e le istituzioni integranti, per garantirsi meglio il perpetuare del dominio che esercitano sull’insieme della società.


Solo quando scompare improvvisamente la dicotomia “noi-loro”, creoli e “altro
coloniale”, sembra che si rompa la dialettica coloniale e –perlomeno– si riesce a generare uno sviluppo economico a largo raggio. Sebbene evidentemente quest’ultimo non sarà effettivamente del tutto generalizzato, né esteso ad altre questioni che vanno oltre il macroeconomico.
 
 
Solo allora, ci dicono i neoistituzionalisti Acemoglu e Robinson, le “élites estrattive” possono vedersi obbligate –proprio perché restano prive della dialettica coloniale– a estendere verso una porzione maggiore della popolazione il riconoscimento dei diritti civili ed economici. Solo allora si sviluppano modelli di società relativamente più “insclusive” (ma certamente non del tutto). Solo allora si vedono costrette a limitare le esclusioni e le rapine gratuite così tipiche della colonialità; e ad estendere a maggiori strati della popolazione i diritti civili ed economici (p.e. diritti alla proprietà, alla garanzia degli investimenti, al libero accesso alle attività più produttive, all’eguaglianza delle opportunità, all’usufrutto del proprio capitale umano, ecc.).


Possiamo contrapporre le due tipologie indicate di colonialità a partire da un interessante e assai significativo “esperimento storico” que sintetizza Daron Acemoglu (Root Causes: A Historical Approach to Assessing the Role of Institutions in Economic Development). Si tratta di analizzare l’impatto storico sullo sviluppo economico delle società colonizzate di quelle istituzioni create o porpetuate dai colonizzatori. Ovviamente le società mantengono le stesse determinazioni geografiche prima e dopo la loro colonizzazione, e la loro disponibilità di risorse naturali non è cambiata significativamente.
 
 
Però, allo stesso tempo, ciò che è sostanzialmente cambiato lungo il corso della loro storia sono gli indici di sviluppo, specialmente se si comparano i diversi tipi di colonizzazione. Proviamo a evidenziare qualche elemento rilevante per il successivo sviluppo economico e umano in funzione dei distinti tipi di istituzioni promosse dai colonizzatori. Questo può rappresentare un importante indice dell’impatto della colonialità, perfino nell’aspetto meramente economico e produttivo, prescindendo dalle note crudeltà della colonizzazione!


Secondo l’affatto sospetto economista Acemoglu (2003) esiste una scandalosa

percentuale invertita tra la ricchezza di cui disponevano le società colonizzate prima che si producesse la colonizzazione e quella attuale (vale a dire: in linea di massima molto tempo dopo rispetto a quando “finirà” la colonizzazione). Anche oggi, molto tempo dopo rispetto alle indipendenze formali, si può constatare il perdurare degli effetti economici della colonialità sotto la sorpredente formula: quanto più ricche rispetto alle altre erano le società colonizzate verso l’anno 1500 della nostra era, oggi lo sono relativamente meno!


Così società popolose come quella degli aztechi, degli incas o dell’impero del Gran Mogol (attuale India) sono state sostituite oggi da società con indici di sviluppo economico relativamente bassi per l’insieme dell’umanità. Qui risulta ovvio ed è comunemente accettato in tutto il mondo l’effetto della colonialità, sebbene forse il fatto che il suo impatto prosegua così a lungo termine e nella stretta attualità possa sorprendere. In altri termini, a tutt’oggi le società che hanno sostituito quella azteca, incas e mongola sono –paragonate al resto dell’umanità– meno ricche e sviluppate economicamente che nel 1500; vale a dire, cioè, prima della colonizzazione europea.


Tale conclusione è generalmente accettata, ma i difensori della colonialità sono soliti opporgli altri esempi, apparentemente migliori. Così oggi occupano posizioni di sviluppo relativamente alte società che erano poco popolose e relativamente arretrate all’inizo del secolo XVI, come mostrano i casi di Australia, Canada, Stati Uniti d’America e Nuova Zelanda. In questi casi –si dice– la colonizzazione si è mostrata vantaggiosa sul terreno economico a lungo raggio.


Vediamo ora i dati e cerchiamo di comparare l’evoluzione economica a largo raggio di quei paesi sotto questi due tipi di colonizzazione. Per rendere paragonabili le ricchezze e gli indici di sviluppo umano di queste società nell’anno 1500, Acemoglu e Robinson partono dalle migliori stime disponibili della loro popolazione e del loro livello di urbanizzazione (che nessuno discute). Le società tradizionali erano solite rispondere molto fedelmente alla legge di Malthus, la quale vincola le risorse disponibili (per esempio, quelle alimentari) e la popolazione esistente. Il livello di urbanizzazione, inoltre, indica molto bene i livelli raggiunti di organizzazione politica, civiltà materiale e complessità sociale.


Ebbene, la comparazione tra questi indici della base demografica e dell’urbanizzazione corrobora le differenze che vi erano nel 1500 tra gli aborigeni australiani, neozelandesi, canadesi e statunitensi con il livello raggiunto dalle civiltà inca, azteca e mogol. Queste ultime erano indubbiamente più popolate, più ricche e urbanizzate delle prime.


Evidentemente non si può pensare che la geografia sia cambiata così tanto,

Ciononostante le tesi che sottolineano l’importanza della geografía non sono da disprezzare, come hanno reso manifesto le opere così importanti di Jared Diamond (2006) o Robert D. Kaplan (2013). Perciò Acemoglu (2003), sebbene considerando più importanti altre cause, riconosce una significativa correlazione tra la geografia e lo sviluppo umano, ricordando per esempio un fenomeno famoso e commentato già da secoli: in generale c’è più povertà vicino all’equatore e nelle zone molto calde.
 
E come che siano stati implicati tipi di cultura molto differenti, dobbiamo pensare che questa inversione nel livello relativo di sviluppo raggiunto da questi due gruppi di società risponde basicamente alle conseguenze provocate dalle differenti istituzioni stabilite caso per caso dai colonizzatori europei. Ebbene, tali istituzioni e la dialettica coloniale hanno generato una tendenza a lunghissimo raggio –nonostante i grandi e difficili cambiamenti– che ancora oggi si percepisce negli indici di sviluppo di queste società.


Una volta conquistati dagli europei e sotto l’impatto della dialettica coloniale, la ricchezza relativa di civiltà come quella azteca, inca e mogol rese più facile l’instaurazione o perpetuazione delle “èlites estrattive”, le quali incentivarono –a lunghissimo raggio e ben oltre le indipendenze formali!– il saccheggio delle grandi ricchezze disponibili. Inoltre, il relativamente alto livello di popolazione, così come il fatto che questa fosse organizzata in base a istituzioni forti, coercitive e centralizzate, facilitò il perdurare di istituzioni oppressive, che porteranno per molto tempo ancora all’esclusione di gran parte della popolazione. Acemoglu e Robinson citano come esempi di queste istituzioni oppressive al servizio delle caste estrattive i differenti tipi di schiavitù, di lavoro forzato e “a buon mercato” nelle miniere, nelle piantagioni, ecc. Ricordiamo che Walter Mignolo e Achille Mbembe sono d’accordo nel vedere nella colonialità e nelle piantagioni il modello moderno di esclusione e di stato d’eccezione.


Apparentemente la “colonialità” fu maggiormente benevola con l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e gli Stati Uniti; ma –come vedremo– non lo fu certamente con la loro popolazione indigena. Senza dubbio la scarsa ricchezza degli indigeni australiani, neozelandesi, canadesi o di ciò che posteriormente saranno gli Stati Uniti rese minimi i benefici che si potevano ottenere dal suo iniziale saccheggio. La poca popolazione indigena esistente e la sua distribuzione tra molte tribù disperse –inoltre- rese anche minime le possibilità di perpetuare istituzioni chiaramente oppressive e che si basassero su uno sfruttamento permanente di questa popolazione indigena. Significativamente questi tentativi sono esistiti, ma sono falliti proprio a lungo termine. Acemoglu e Robinson analizzano diversi tentativi storici volti a instaurare istituzioni e caste chiaramente “estrattive”, così come il loro mancato raggiungimento dello scopo.


Il risultato comparativo conduce a dimostrare che –in società come quella azteca, inca o mogol– i colonizzatori poterono sfruttare stabilmente l’insieme

della popolazione colonizzata. Così poterono –mutando mutandis– costituire loro stessi e mantenere i loro eredi creoli nelle vesti di “élites estrattive” a lungo termine. Anche dopo i processi politici di indipendenza! Al contrario ciò non fu possibile lì dove la popolazione era molto povera, possedeva scarse risorse ed era difficile da organizzare come nel caso degli indigeni australiani, neozelandesi, canadesi e degli Stati Uniti.


Che nessuno si entusiasmi troppo presto, per favore! Poiché tutto questo non evitò, ma anzi favorì, strategie di sterminio e di pulizia etnica (Michael Mann, 2009). Impedì solamente che i colonizzatori potessero strutturarsi a lungo termine come una casta estrattiva ed edificaré –anche qui a lungo termine– la loro società in funzione di istituzioni repressive e saccheggiatrici dell’insieme della popolazione. I colonizzatori non poterono mantenere loro stessi sovrapposti alla popolazione indigena (come del resto accadeva nella Sparta classica), ma neanche limitarsi solamente a “estrarre” le risorse prodotte dalla stessa.


Ma, allo stesso tempo, e principalmente a causa dell’impatto della colonialità, qui si produsse una “pulizia etnica” quasi totale, che impedì completamente che le caste estrattive potessero conservarsi sulla base di una dialettica coloniale che schiavizzerà gli indigeni. Per questo negli Stati Uniti –ma anche nei Caraibi e in alcune parti del Brasile– si dovettero importare schiavi negri in maniera massiccia, catturati nelle lontane terre africane. Ma adesso lasciamo da parte quest’altro brutale aspetto della colonialità e situiamoci all’interno della dialettica tra la popolazione creola di matrice europea e la popolazione indigena preesistente.


Praticamente sterminati gli indigeni, o ridotti a un livello minimo di “valore d’uso schiavistico”, si rompe gran parte della dialettica coloniale. La popolazione creola d’origine europea non può stabilirsi come “casta estrattiva” sulla base del dominio dell’ “altro indigeno e coloniale”, che é stato praticamente eliminato. In questo modo si rompe una parte essenziale di tale dialettica coloniale, anche se non tutta, ma sufficiente per iniziare un altro modello di sviluppo economico e sociale.


Acemoglu e Robinson arrivano a concludere che –allora– questi colonizzatori o

creoli si videro obbligati a stabilire leggi e istituzioni meno estrattive. Vogliamo sottolineare che tale deriva diviene possibile solamente e precisamente attraverso il genocidio e la pulizia etnica che erano arrivati a un apice. Non possiamo qui approfondire tale questione ma, venendo a mancare l’“altro coloniale”, si impongono dialettiche altre, differenti da quella analizzata, le quali li obbligano a riconoscere e ad applicare diritti civili e politici a strati più ampi della popolazione. Da ciò risulta che –se seguissimo Acemoglu e Robinson– si produce un maggior livello di sviluppo economico a lungo raggio rispetto a quello prodotto nell’altro modello di colonizzazione basato sullo sfruttamento sistematico della differenza coloniale con l’indigeno. Ebbene, in tal caso questa popolazione può essere trattata molto duramente e sfrutatta ma –in quanto necessaria– non può essere totalmente sterminata.


Sorprende l’impatto ancor oggi percepibile di queste tendenze e istituzioni coloniali, praticamente 500 anni dopo e avendo anche avuto luogo l’industrializzazione. Le élites creole, che si erano costituite come “estrattive”, lottarono per conservare la loro intima natura anche dopo l’indipendenza politica e formale. Perciò, sebbene i cambiamenti furono molti e notevoli, cercarono di mantenere istituzioni estrattive dalle quali trassero benefici diretti e maggiori rispetto a quelli ottenuti dalla metropoli europea.


Colpisce il fatto che –come si può vedere– le conseguenze della colonialità sopravvivano tanto tempo dopo e nonostante i molti cambiamenti tencologici, sociali, politici, ecc. Ma è chiaro che –anche negli aspetti più superficialmente economici e produttivi– la colonialità ha avuto e continua ad avere delle conseguenze disumane, che non possono essere sminuite. Inoltre continuano a possedere dialettiche molto simili in ambienti apparentemente distanti e non coloniali. È il caso, ad esempio, dei noti freni all’industrializzazione, alle ferrovie e alle istituzioni modernizzatrici da parte di latifondisti e re spagnoli, austroungarici e russi durante il secolo XIX.


Qui termina la nostra breve analisi macrofilosofica, la quale ha voluto sottolineare che –dietro alla dialettica coloniale analizzata– esiste un processo decisivo di perdita di potere, esclusione e subordinazione di una gran parte della popolazione. Nella sessione inaugurale del Primo Congresso Internazionale di Lotta alla Povertà (20-11-2013) a Belo Horizonte, io stesso ho evidenziato alcuni meccanismi che frenano la lotta sociale, che sono assai poco studiati e che mi sembrano importanti nell’attuale turboglobalizzazione postindustriale. Anche per questo motivo oggi noi analizziamo macrofilosoficamente e postdisciplinarmente i meccanismi decisivi riguardanti la presa di potere da parte della totalità della popolazione, per distruggere le dialettiche perverse come quella della colonialità. (trad. prof. Leonardo Franceschini, UB)

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