Gonçal Mayos PUBLICATIONS

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Nov 9, 2020

ZAMBRANO E NIETZSCHE: CAMMINO DEL LINGUAGGIO

L’unico cammino per la filosofia è pensare con metodo, o piuttosto il cammino del pensare è l’unico metodo filosofico? La filosofia deve sottoporre il linguaggio a un metodo, o piuttosto il metodo specifico della filosofia è seguire liberamente e creativamente il linguaggio? Andando oltre il cammino «del serpente» o «dell’intelletto», Zambrano e Nietzsche optano per incamminare la ministrìa dello scrittore e del filosofo sotto la «maestrìa» del linguaggio, favorendo la rivitalizzazione reciproca di pensiero e linguaggio. 
 
Introduzione
 
L’unico cammino per la filosofia è pensare con metodo, o piuttosto il cammino del pensare è l’unico metodo filosofico? La filosofia, come la scienza, deve sottoporre il linguaggio a un metodo? O piuttosto l’unico metodo filosofico (perlomeno quello proprio e specifico della filosofia) è sotto-mettersi liberamente al linguaggio e, da quello, estrarre la massima creatività e lucidità? Queste sono questioni chiave tanto per Zambrano quanto, precedentemente, per Nietzsche[1].
 
Optando (come crediamo abbiano fatto Zambrano e Nietzsche) per la seconda possibilità in  ciascuna delle domande menzionate, analizzeremo la «maestrìa» del linguaggio in e attraverso la «ministrìa» dello scrittore  e del filosofo. Opporremo il cammino del «serpente» a quello «dell’intelletto» e analizzeremo i pericoli che quest’ultimo presenta per Zambrano e Nietzsche. Infine, indagheremo gli sforzi comuni di entrambi gli autori volti ad una reciproca rivitalizzazione di pensiero e linguaggio.
 
Ci concentreremo sulle Note di un metodo, anche se riconosciamo la difficoltà di distinguere degli ambiti all’interno dell’opera di Zambrano (e a maggior ragione di separarli). In particolar modo riteniamo che i quattro frammenti finali di Note di un metodo giochino un ruolo duplice: da un lato quello di sintetizzare una serie di figure mistiche, che esemplificherebbero i «risultati» di Note di un metodo, e, dall’altro, quello di mantenere la connessione e la continuità con Aurora, visto che entrambi provengono da un insieme comune di scritti[2].
 
Pensare con stile
 
«Il metodo dev’esser stato sin dal principio in una certa determinata esperienza, in virtù del quale ottiene corpo e forma, figura. Ma si è rivelata indispensabile una certa dose di avventura e perfino un certo perdersi nell’esperienza, un certo errare del soggetto nel quale essa si va formando. Un perdersi che sarà poi libertà».[3]
 
Un’esigenza così largamente diffusa tra i più – che quasi non permette alcuna dissidenza o addiritutura il minimo ridimensionamento – è che il pensiero debba costruirsi secondo un metodo. Tutti conosciamo grandi filosofi, scienziati e pensatori che orgogliosamente hanno seguito questo precetto, questa esigenza: bisogna pensare con metodo, è questo l’unico cammino! Alcuni l’hanno perfino fatto con bello stile ed eleganza: come Cartesio, senza dubbio uno dei principali enunciatori del principio metodico.
 
Ora, interpreteremo María Zambrano e Friedrich Nietzsche a partire da un punto in comune molto significativo fra i loro rispettivi metodi di filosofare: entrambi sembrano esser privi di ogni metodo. O perlomeno in alcuni luoghi della loro opera mostrano chiaramente di rompere, saltare o non attenersi a nessuna delle regole del metodo del «buon pensare», incluso quelle che sembrano rispettare altrove, in altri luoghi. Potremmo citare ora frammenti ben noti, nei quali entrambi confessano il loro interesse per ciò che è contraddittorio, frammentario, impreciso, asistematico, lucidamente incoerente, aperto a ciò che sta aldilà del logos...
 
E tuttavia, qualsiasi aforisma o frammento del pensiero di Zambrano o Nietzsche è inconfondibile e, immediatamente, ci rimanda alla totalità del loro discorso, del loro discorrere apparentemente senza metodo. Certamente non è la stessa cosa seguire un metodo o mantenere uno stile coerente nel corso di tutta la propria opera. Pertanto Zambrano e Nietzsche potrebbero mancare di metodo, ma – come di fatto è – avere ciascuno uno stile brillante e caratteristico, personale nonostante alcuni punti in comune.
 
Sarebbe facile, allora, dire che tanto Nietzsche quanto Zambrano prescindono da ogni metodo mantenendo però ciascuno una profonda volontà di stile. Pertanto non avrebbe senso cercare in essi delle analogie di metodo, dato che si tratta di due stili di filosofia che di analogo hanno solo il fatto che i rispettivi autori filosofano, scrivono, pensano… con stile. E immediatamente pensiamo alla libertà e creatività che comporterebbe la rinuncia al metodo da essi incarnata per ricercare soltanto lo stile. Ebbene, senza negare questa approssimazione al pensiero di Zambrano e di Nietzsche, crediamo che ci sia un aspetto più radicale e urgente da mettere in rilevo… e che non sempre si può associare alla libertà o, ancor meno, a termini come lassismo, licenza, arbitrarietà, esenzione, permissività, rilassamento, vaghezza, negligenza, mancanza di eleganza, … a discrezione o liberalità linguistica.
 
Infatti gli stili personali di Zambrano e Nietzsche concordano nel partire da, accettare e perfino sottomettersi alle più radicali esigenze linguistiche. Il loro pensare con stile non comporta lottare contro il linguaggio, ma cercare il proprio stile in e attraverso lo stile del linguaggio (includendo le regole grammaticali più strette). Di contro all’esigenza tradizionale, secondo cui l’unico cammino per la filosofia è pensare con metodo, Zambrano e Nietzsche sostengono piuttosto che il cammino del linguaggio e del pensare è l’unico metodo filosofico possibile. María Zambrano cerca persino, coscientemente, di rifondare una nuova e radicale possibilità di discorso, che evidentemente dev’esser fatta risalire al progetto di Nietzsche, e che permetta di comprendere ciò che entrambi avevano voluto e potuto fare[4].
 
Uniti dall’analogo progetto di liberazione del pensare, progetto che rivelerà un’altra esigenza tanto più rigorosa, l’unico metodo comune e identificabile di Nietzsche e Zambrano è – per entrambi – perseguire il «cammino nascosto» e «ricevuto»[5] nel e attraverso il linguaggio[6]. Con piena coscienza linguistica[7], filosofano tenendo conto, in ogni momento, della maestrìa del linguaggio. Ancor di più, cercano la propria maestrìa stilistica interpretando la maestrìa del linguaggio, ovvero lottando contro di quella ma a partire dalla più radicale e cosciente sottomissione alla stessa.
 
In opposizione agli anchilosati stili filosofici più in voga nella loro epoca, Nietzsche e Zambrano concordano nel proporsi di raggiungere la maggior libertà e creatività possibile, ma senza che questo comporti rinunciare ad un certo proprio rigore stilistico. Qui la relazione fra i due è evidente: «Poiché ciò di cui si tratta, come qualcuno ci ha detto, è di tornare bambini; ma bisogna interpretare questo motto come un tornare ad essere creature, de-personalizzare la storia che sta soppiantando il ‘sentire originario’, fatto già prigioniero dalla ragione»[8]. Liberare tale «sentire originario» fatto prigioniero o sepolto sotto le rigide regole di un metodo che incatena il linguaggio e il pensiero. Al contrario del pensiero, molto spesso opaco, inaridito e imbevuto di se stesso che ha dominato l’Occidente e che – come dice Zambrano – prescinde «da tutto ciò che in verità gli è stato necessario per poter essere», bisogna recuperare quanto vi è di «anteriore al metodo», il previo e primordiale; poiché «l’esperienza precede ogni metodo. Si potrebbe dire che l’esperienza è “a priori” e il metodo “a posteriori”».[9]
Per questo Zambrano e Nietzsche prestano attenzione, e captano acutamente, ciò che abitualmente viene disprezzato dall’«alta cultura» e dalla filosofia accademica, rendendo evidente la sua importanza. Mostrano che molte volte, se si vuol pensare davvero, il dettaglio è tema, il periferico centro, l’accidente l’essenza, l’aneddoto il nucleo narrativo, il caso causa, la nota melodia, il passeggero storia, l’istante eternità,… ma concordano anche nel fatto di non pretender mai di elevare ciò a sistema, a struttura già conquistata, a assoluto, a conclusione, risultato, soluzione, meta, metodo…
 
Zambrano e Nietzsche rifuggono ciò che è topico, trito, il già detto, … e rifiutano anche il detto male, sia in quanto tale ‘dire male’ conduce a un errore, sia in quanto espresso erroneamente. Sia perché è falso il risultato, il suo riferimento inesatto o vuoto il suo significato, sia perché è un mal-dire, essendo erroneo il suo significante, anodino il suo stile, farraginosa la sua sintassi, impossibile la sua pragmatica, controproducente la sua retorica… Per questo i nostri autori, in luogo di seguire nel dettaglio un certo metodo, secondo lo stile tradizionale dell’Occidente, si propongono di seguire con l’orecchio, il talento e lo stile la maestrìa del linguaggio.
 
 
Maestrìa del linguaggio, «ministrìa» del pensatore
 
«E se si accetta questa parola profetica o imperativa dell’animale simbolico fra tutti quelli che tendono un cammino, questa sostituirà o persino occulterà e riuscirà talvolta a soffocare con il suo fuoco la parola ricevuta, l’iniziale, la prima, la parola che, se si conserva, costituisce l’essere: la presenza e la figura, con il ritmo, il numero e il peso di ogni cosa, di ogni essere. Ma si capisce che l’uomo, l’essere della parola, porterà in modo unico la parola iniziale ricevuta[10], dalla quale, se sorge un cammino, esso sarà a propria volta un cammino unico, in parte occulto, che solo una piena rivelazione gli potrà dare – sempre che propriamente di un cammino si tratti[11].
 
 
María Zambrano e Friedrich Nietzsche concordano nel riconoscere la piena superiorità della maestrìa ontologica del linguaggio su quella ontica[12] del pensatore o scrittore concreto; poiché in fondo questa non è se non una maestrìa seconda, discepolare: quella del maestrino con il suo libretto sotto il braccio. Vale a dire, per entrambi, il linguaggio è la condizione di ogni maestrìa e magistero[13], mentre lo scrittore e il pensatore apportano solo la propria «ministrìa»[14]. Quest’ultima ‘si magnifica’ nella misura in cui apprende la maestrìa e segue il magistero del linguaggio.
 
Come indica l’etimologia latina di «ministrator»[15], lo scrittore e il pensatore governano le parole, rendono disponibili le idee ed formano le espressioni, ma sempre e inevitabilmente per conto di un altro, essendo «ministri» di un altro, che è il vero maestro, guida, direttore, signore e re. In modo simile a come Francis Bacon affermava che si poteva dominare la natura solo seguendo le sue leggi, ci si può servire del linguaggio efficacemente e con stile, servendo attenti, obbedientemente, da buoni discepoli e acutamente il linguaggio stesso, diventando alti ministri del linguaggio.
 
La profonda relazione fra la loro «ministrìa» e la incorruttibile maestrìa o il solitario magistero del linguaggio è particolarmente chiara quando parliamo di Friedrich Nietzsche e María Zambrano (che in relazione a ciò condividono, una volta di più, aspetti centrali). Sappiamo dell’errabonda solitudine di Nietzsche, delle sue realtivamente poche letture, e dei suoi assai pochi libri «da comodino». A propria volta errabonda, Zambrano legge di più e forse ha avuto qualche libro o autore da «comodino» in più (fra quelli e in prima fila: Nietzsche); ma in più soffre la crudele solitudine delle donne nella storia della filosofia (specialmente nella misura in cui fa bella mostra delle sue peculiarità propriamente femminili) e forse anche quella solitudine che (secondo Virginia Woolf) si accentua quando uno non sta solo e vuole/deve starci, dovendo conquistare uno spazio o una dimora propria.
 
Queste profonde solitudini ‘magnificano’ per i nostri autori la maestrìa diretta e il magistero privo di intermediari e di interferenze del linguaggio. Tanto per Zambrano quanto per Nietzsche, la propria maestrìa o magistero si manifesta, proviene e si verifica nella loro intima e assolutamente cosciente relazione con il linguaggio. Questo è il loro compagno costante, poiché gli intelocutori umani mai fecero loro dimenticare che si dialoga soprattutto grazie, in, attraverso e con il linguaggio (di qui la profonda coscienza linguistica dei nostri autori).
 
Possiamo esser ancor più specifici per quel che riguarda María Zambrano[16]: la sua maestrìa particolarmente potente e diretta nei confronti del linguaggio scritto. In ogni caso, a causa della loro solitudine accademica[17] – e sotto certi aspetti anche privata – il loro pensiero dipende in particolar modo dalla loro personale, intima, costante e cosciente relazione con il linguaggio, specialmente con la scrittura. Dipende da una costante attenzione stilistica al linguaggio, al suo discorrere, ai suoi collegamenti più occulti, alle sue potenzialità più versatili… educando la loro «ministrìa» a questa unica maestrìa, questo supremo magistero.
 
Per questo Marìa Zambrano[18] trae un frutto così ricco da ciò che si tende a etichettare come un apparente divagare, che tuttavia, qualora lo si analizzi, appare come un discorrere guidato dalla sua grande intuizione del linguaggio, da un pensare per il quale il linguaggio è la grande guida e al quale si presta attenzione anche nei dettagli. Il pensiero di María Zambrano si costruisce e discorre lasciandosi di-vagare dal linguaggio, dalla sua melodia, dalla sua logica avversativa, dal suo ritmo… e dalla sua costante capacità di sorprendere. Per questo, in Zambrano, i costanti incisi rompono sempre la previsione del lettore distratto, dando la priorità all’ingegno sconcertante rispetto alla logica prevedibile; sebbene rifiuti tanto la vuota soluzione ad effetto, quanto una conclusione ‘quod erat demonstrandum’, Q.E.D.
 
Zambrano si fa carico del magisterio del linguaggio e ne riconosce la maestrìa – sempre misteriosa: «È proprio della guida non rivelare il suo sapere, ma metterlo in pratica e basta. Enuncia, ordina, a volte solamente indica. Non trasmette una rivelazione. Ordina il necessario, con la precisione indispensabile affinché l’azione sia eseguita, senza tener troppo in conto il fatto che sia compresa o meno»[19]. Tale guida magistrale non esercita un dominio oppressivo né coercitivo, al contrario genera una enorme potenza liberatoria quando si trovino lo stile, la formula, la nota musicale o il tratto espressivo adeguati: «una guida offre innanzi tutto, come sostengo, l’ordine della sua indicazione, una certa musica, un ritmo o una melodia che colui che viene guidato deve captare seguendola»[20].
 
Oltre ad essere misteriosa, tale musica che agisce da guida e metodo non è banale, ma parla all’essere profondo di ciascuno e trasforma radicalmente la realtà. Non è semplicemente un cammino da seguire, ma il cammino attraverso il quale trasformarsi, divenire, incontrarsi, venire ad essere: «Per questo colui che riceve un cammino-guida deve uscire da sé, dalla condizione in cui si trova, deve svegliarsi non da solo, ma come già inserito all’interno di un ordine; e colui che segue questo cammino riceve, nelle scarne parole e nelle indicazioni enigmatiche, le note, in senso musicale, di un Metodo. Attraverso questa specie di musica, mai completamente udibile, la guida trascina dapprima il suo seguace attraverso una specie di irresistibile seduzione, con una violenza che va aumentando, nella misura in cui si sale la scala dell’anima e della mente. La seduzione autoritaria e categorica può restare chiusa nella guida e la sua violenza farsi sentire all’improvviso, ponendo il soggetto di fronte a un’ineluttabile necessità di entrare in un luogo alle cui porte è stato condotto: un luogo del quale non conosceva l’esistenza ».[21]
 
 
Il «cammino nascosto» come maestrìa del linguaggio
 
«Le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che vengono con passo di colomba, conducono al mondo».[22]
 
María Zambrano chiama questo cammino, che si palesa solo seguendo la misteriosa guida del linguaggio, «il cammino nascosto» e lo associa ai saperi più arcani, a questa «sapienza segreta» che tradizionalmente tanto ha affascinato l’umanità: quasi tanto quanto oggi la si disprezza e la si dimentica. Lo chiama il «terzo cammino», sebbene in molti sensi fu il primo ad essere percorso e a trasformare e realizzare veramente chi lo segue. Tale cammino – dice Zambrano – «non si apre senza una guida e non vi si accede senza che il cuore si sia mosso e la mente gli obbedisca. Solo quando il cuore si abbatte quasi al punto di venir meno per poi rialzarsi, fa seguire alla mente le sue segrete ragioni».[23]
 
Non si deve cercare dietro queste parole un eccessivo misticismo (come si suol fare), dal momento che María Zambrano concorda con Nietzsche sul fatto che tale guida misteriosa, l’unica guida possibile e in un certo senso sicura, è nientemeno che il linguaggio stesso. Orbene, tale «cammino nascosto» nel linguaggio e «ricevuto» con esso[24], che è maestro di vita e guida del pensiero, dev’essere a propria volta scoperto. Anche se la sua maestrìa protèica sembra eclissare la «ministrìa» di ciascuno, questa è a propria volta necessaria come lucido testimone di quella.
La maestrìa del linguaggio guida misteriosamente ma proteicamente le «ministrìe» umane; per questo i pensatori o gli scrittori (che a volte si definiscono con cosciente umiltà «scribi») sono certamente «ministri», «magistrati» e servitori di quel magisterio. Seguendo le loro «ministrìe» compiono il loro desiderio profondo e trovano finalmente in sé «ciò che gli manca per essere, perché l’essere nato soltanto a metà si compia»[25], perché – come dice Zambrano – dalla loro propria vita facciano scaturire «una forma, la loro opera» «che è un segno da seguire, un insegnamento. È qualcosa di privo di forma, un’insinuazione, una allusione che suggerisce qualcosa da fare e, in ciò che veniamo di volta in volta a prendere in considerazione, un cammino da seguire»[26].
 
Seguire la magistrale guida del linguaggio non comporta rinunciare alla creatività, alla singolarità o allo stile personale, dal momento che questo non è se non la personale distillazione della quintessenza della lingua. Il miglior metodo per pensare bene o scrivere bene è cercare e definire il proprio stile o «ministrìa»; scoprendo, tracciando, transitando e incarnando la maestrìa del linguaggio. È certamente un cammino personale ma allo stesso tempo universale, come il solco di uno stilo traccia un nuovo percorso su una tavoletta di cera mille volte tagliata e rifatta. È un cammino personale ma «trovato» e «ricevuto», poiché arcanamente era già lì «nascosto», attendendo di esser detto.
 
Esprimere al massimo le possibilità espressive del linguaggio non significa lottare disperatamente contro di quello, né imporgli una logica che non è la sua (come a volte sembrano fare persino geni come Hegel); bensì al contrario lasciarsi guidare, portare, condurre, scoprire, dire e addirittura «comandare» dal linguaggio. Seguire il cammino, allo stesso tempo nascosto e aperto o stipato nel linguaggio, è la condizione comune della genealogia nietzscheana e della ragion poetica di Zambrano. Prestare attenzione lucidamente alla costituzione, all’etimologia, alla semantica, all’uso pragmatico e – perfino – alla sonorità retorica e alla ispirazione della lingua, come condizione ontologica del pensare e del dire autentici.
 
Certamente, le lingue hanno tessuto durante millenni un labirito nel quale sta inscritto l’essere umano, anche grazie qualche pericoloso Minotauro o «stregoneria linguistica» (come diceva Wittgenstein). Zambrano o Nietzsche non lo negano, ma notano che si può trovare l’uscita da questo labirinto, o almeno il cammino (l’unico metodo), seguendo astutamente e lucidamente il filo di Arianna, a propria volta inscritto nello stesso labirinto o prigione del linguaggio. Si tratta di fare di necessità, virtù; un po’ come diceva Hölderlin nel suo inno Patmos: «Ma dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva».
 
Nietzsche afferma che il linguaggio è una prigione dalla quale è impossibile scappare; María Zambrano l’ha sempre intuito. I due concordano anche nel sapere che, ciò che più si avvicina a questa evasione impossibile, è imparare a farsi librare in aria – con stile e apparentemente senza resistenza –  lungo il profondo cammino ancora non calpestato, apparentemente vergine, personale e creativo, che sorge non dal confronto con il linguaggio, bensì dall’accettazione della sua maestrìa: la potenza espressiva della grammatica, della sintassi, della semantica, della pragmatica, della  retorica… e anche della sua poesia, ispirazione, sonorità[27], musica… In definitiva, si tratta di cercare il cammino che il linguaggio suggerisce ai pellegrini sinceri che in esso si addentrano.
 
Ma anche nel linguaggio v’è questo tipo di cammino «che sarebbe meglio chiamar sentiero, vicolo, viottolo, scorciatoia o alzaia, il cammino ricevuto dall’uomo e solo allargato, quando possibile, spianato a forza di esser percorso da qualche animale. Il cammino segnalato dal valico, dal passo e che è, innanzitutto, passaggio, apertura»[28]. Paradossalmente è un cammino che qualsiasi animale segue e intuisce meglio degli uomini, ma che allo stesso tempo è segno chiarissimo di determinazione o provvidenza divina; poiché è tracciato geologicamente e telluricamente, frutto di forze divine (come pensavano i greci) o di scontri fra placche immense (come tendiamo a pensare oggi). Orbene, solo un animale si azzarda a sfidarlo con fierezza: quell’animale tanto orgoglioso e ingenuo che è l’uomo (e su questo concordano, una volta di più, María Zambrano e Friedrich Nietzsche).
 
 Dal cammino del serpente a quello dell’intelletto
 
«Il cammino scorre, si muove come vivo quando serpeggia e come un imperativo quando compare retto allo sguardo; proiezione di un disegno della vita nel serpente esteso semidispiegato, proiezione di una volontà quando si trova a non aver altra giustificazione che portare da qualche parte. Ma in questi casi il cammino non si apre da sé, come qualcosa che appartiene al suolo terrestre così propriamente come i suoi accidenti e le sue modulazioni. Solo i fiumi sembrano andare per conto proprio. E certi cammini accidentati, quasi impossibili da seguire, segnati dalle impronte degli uomini soltanto, dopo esser stati marcati dalle impronte degli animali; cammini segreti, erte».[29]
 
Di fronte a questo «cammino ricevuto» e «nascosto» che abbiamo associato alla maestrìa del linguaggio e che per questo possiede – per noi – qualcosa di divino[30] e tellurico, Zambrano oppone gli altri due grandi metodi che l’umanità ha privilegiato: «Mentre il cammino sinuoso serpeggiante nasce dal desiderio, dall’avidità segreta e dal suo più nascosto progetto, che la mente ignora, il cammino piano nasce da una decisione della volontà cui la mente obbedisce».[31]
 
Il più calpestato e battuto è quello che María Zambrano chiama il cammino del serpente[32]. «Il Serpente, […] il supremo iniziatore,  dal quale il primo uomo – già nella dualità di uomo e donna – ricevette il cammino, il cammino umano, cadendo dallo stato di natura, in cui non v’era cammino alcuno, nella storia»[33]. E’ un procedere e un metodo oscillante, errante, sinuoso e curvilineo perché si lascia trasportare dal desiderio, dalla curiosità contingente o da una certa visceralità edonista, tradizionalmente associata al serpente.[34]
 
L’altro grande cammino umano è quello che Zambrano chiama «retto», «piano», «dell’intelletto» o «della scienza», che in Occidente si è presentato come quello più proprio della nostra specie, quello che culmina il processo di umanizzazione e che vede nel metodo scientifico il suo grande trionfo. Significativamente Zambrano lo oppone anche al cammino del serpente, il quale ne viene in qualche modo disciplinato, dal momento che esso rappresenta «Il filo del pensiero che rende innecessaria, che cancella completamente l’ispirazione del serpente ammansendola».[35]
 
Le nuove strade asfaltano man mano i vecchi e zigzaganti sentieri tracciati «dal disegno sinuoso, dalle intenzioni sempre curvilinee della vita elementale»[36], abbreviandole con enormi rette che sottomettono il rilievo grazie a poderose costruzioni di ingegneri e architetti: «il cammino retto che l’intelligenza traccia obbedendo ad una volontà dichiarata, impronta di una finalità da conseguire per il cammino più corto».[37] Orbene, tanto nelle strade quanto nel metodo, ci dice Zambrano: «Se il {cammino} sinuoso è la traccia dell’animale uomo, quello rettilineo è già una vera costruzione, un principio di architettura».[38]
 
Tanto Nietzsche quanto Zambrano mettono in rilievo la «volontà di dominio» che impregna questo cammino «retto» e «piano» costruito a partire dal metodo scientifico, tecnologico e architettonico; dal momento che è intrinsecamente definito tanto per dominare la natura quanto per essere obbligatorio, necessario e inevitabile per l’umanità.
 
 
Pericoli del cammino dell’intelletto
 
«Supporre che la verità sorga dal ragionamento è confondere la necessità di pensare con l’urgenza di conoscere». Hannah Arendt
 
Non deve sorprendere, quindi, che il cammino e il metodo «dell’intelletto» caratterizzi la maniera di pensare che è divenuta dominante in Occidente. María Zambrano lo qualifica come un pensiero «opacizzato» e «imbevuto di se stesso», e lo critica in un modo molto simile a Nietzsche. Ciononostante, come possiamo vedere a partire dagli studi di Jesús Moreno,[39] Zambrano rimane più affascinata e vincolata a questo cammino occidentale rispetto a Nietzsche e per questo lo qualifica come un «meraviglioso errore».
 
Ma entrambi coincidono nel denunciare che il «metodo intellettuale» che si è consacrato nell’occidente rende difficile, se non impossibile, che il pensiero si vivifichi con il presente.
Già Nietzsche denunciò nella sua seconda inattuale i pericoli della storia per la vita e il pensare del presente. In termini di Zambrano: «Il velo dello scorrere del tempo, della sua fuggevolezza, è squarciato solo da qualcosa che ferisce il soggetto in cui si dà questo accadere. Se in qualche modo non lo ferisce questo accadimento complesso, o questa semplice imagine che riappare o cerca di riapparire, resterà opacizzato o occultato dalla marcia del tempo che proseguendo indifferentemente il proprio corso, non permette che si compia il presente, questo largo presente, luogo di apparizione, centro che si apre al respiro e alla visione. E allora gli avvenimenti passano al passato senza esser stati presenti, senza che il presente si sia fatto per quelli».[40] Questo è il pericolo di una vana erudizione storica, dettaglista, cronologica… che non apporta nulla al presente, che non è esperienza viva, che è priva di vissuto – direbbe Dilthey.
 
Quando nel sapere non c’è esperienza vitale o il conoscere si dà scisso dalla vita, il soggetto non può conoscere se stesso, anche se si trova dietro questo sapere o questo conoscere; pertanto può solo «consumare» o incontrarsi in quello (afferma Zambrano) come qualcosa di «opaco» e come «imbevuto». «Al ricadere il suo sguardo su di sé, al guardarsi come tale, il soggetto si trova opaco, perché si guarda pretendendo di vedere se stesso, e tale sguardo, per sua stessa natura, produce l’opacità, la solitudine incomparabile, il castigo della mancanza di quiete, di radicamento, e la necessità susseguente di dover andare a cercarsi aldilà del se stesso concettuale. Siamo agli antipodi del “sentire originario”».[41]
 
In accordo con Nietzsche, María Zambrano considera colpevole questo soggetto occidentale che così facilmente si maschera dietro alle sue costruzioni e ideali, bloccando ogni esperienza autentica o «sentire originario» – per utilizzare termini zambraniani –. «Sembra una necessità del soggetto il coprirsi», dice Zambrano, per domandarsi molto nietzscheanamete subito dopo: «Da dove viene  al soggetto questa necessità, la necessità di rappresentarsi o rivestirsi, di fabbricarsi una maschera? Da dove procede questa specie di raddoppiamento, se non da qualcosa di intrinseco al soggetto stesso e che possiamo chiamare l’Io? Quando il soggetto si imbeve di questo Io, quando si lascia pervadere da quello, si fa personaggio, smette di esser persona e comincia a rappresentare tutto quello che il suo Io gli impone. Il soggetto inventa se stesso, inventa una maschera, un tipo, un personaggio».[42]
 
Fra le invenzioni più terribili e al contempo profonde dell’io occidentale v’è senz’altro l’assoluto[43]: questo ideale supremo, nel quale presuntamente sarebbe tutto già realizzato, e che fissa e imprigiona ogni cosa. «Il soggetto non si sente quieto, vaga errabondo, in una paradossale motilità. Come in sogno, si sente accerchiato, come internato, implicato in se stesso. Non può pensare, dal momento che l’assoluto non gli permette né pausa né respiro. […] Si trova imbevuto, accerchiato dalla totalità e senza accesso all’universalità. È la totalità, non l’universo, ciò che si presenta al soggetto in questa situazione di fissità, all’interno di un assoluto impenetrabile. […] Nel darsi al soggetto della totalità nell’assoluto, il soggetto si incatena a quella, non può muoversi, sta sempre non quieto, piuttosto allarmato dalla discontinuità de “il medesimo”. E’ stregato. […] Niente gli è proibito, ma nulla gli è accessibile. Si trova in uno stato di inibizione che lo possiede, senza potersi muovere. L’unica mobilità che gli è permessa non è la sua, è la discontinuità dell’assoluto. È l’assoluto ciò che lo muove senza permettergli di muoversi. Tale è la perfetta alienazione del soggetto, il suo trovarsi incatenato. Deve intervenire, gli è necessario non soltanto essere ma essersi; ma come? Andando e venendo da un assoluto all’altro, nell’assoluta, inestinguibile, follia».[44]
 
Certamente riconosciamo qui la follia di Don Chisciotte, la follia denunciata da Erasmo, ma soprattutto, già che siamo tra filosofi, la follia della filosofia, della metafisica… Forse non tutta, e María Zambrano non rinuncia alla possibilità di una filosofia altra. Una filosofia che possa sfuggire alla follia per e di fronte all’assoluto, che è il più potente ostacolo del “cammino nascosto”, dell’esperienza vitale, di ciò che abbiamo chiamato la maestrìa del linguaggio e – incluso – impedisce ciò che Zambrano chiama «trascendenza». Non si tratta di una trascendenza religiosa tradizionale dato che Marìa Zambrano la relaziona con l’immediatezza del flusso mentale, in linea col tempo come «schema trascendentale» in Kant, poiché: «L’immaginazione soppiantatrice crea, e questo è il suo maggior pericolo, una ritenzione nel fluire temporale intimo del soggetto, vale a dire della sua trascendenza. Lo detiene proprio sulla soglia della meta. La fascinazione è la massima opposizione, dato che il soggetto rimane prigioniero, impigliato, legato».[45]
 
L’assoluto blocca ogni «sentire originario» e ogni autentica esperienza vitale per la sua stessa pretesa di «pienezza» o «assolutezza». Inoltre, Nietzche e Zambrano concordano nel considerare che questo stesso blocco contraddice ogni pretesa di pienezza e si trasforma nel grande argomento controfattuale nei confronti dell’assoluto. Marìa Zambrano dice: «Il pieno non permetterebbe all’essere che conosciamo il sentirsi né l’essersi. Il vuoto è il dubbio, non come metodo, ma come “disimbersi” dell’uomo; l’uomo, questa creatura che non può lasciarsi imbere da niente né da nessuno».[46]
 
Ciononostante l’Occidente insiste nel presentare il suo metodo razionale, il cammino dell’intelletto e le sue grandi conquiste tecnologiche «prescindendo da tutto ciò di cui in realtà ha avuto bisogno per essere».[47] Vale a dire, lo presenta frammentariamente, nascondendo una parte (forse quella primordiale) della sua verità e lo separa dalla vita reale presente, senza la quale è o un folle sonno senza veglia, o – ancor peggio – una macchina senz’anima (seppur precisa ed efficace, specialmente quando si progetta in una qualche guerra).
 
 
Rivitalizzare il pensiero e il linguaggio
 
Come aveva fatto anche Nietzsche, solo rivitalizzando il pensiero – insiste Zambrano – possiamo scoprire  il «cammino ricevuto», un metodo aperto, che non abbia regole e si lasci guidare dalla maestrìa del linguaggio. Afferma: «La vita è passaggio. Bisogna fare in modo che in questo essere chiamato uomo, dotato di pensiero, il passare sia trascendere, vale a dire, sia creatore, creatore di un tempo nuovo».[48]
 
Pensare e scrivere con stile e cavalcando questa tigre che è il linguaggio – questa tigre che, se vorremo scendere, ci divorerà – non è per Zambrano o Nietzsche una questione meramente formale, stilistica nel senso per cui lo stile sarebbe una mera forma estrinsecamente aggiunta al contenuto. Al contrario, è la condizione necessaria per trovare il nostro contenuto profondo e rivitalizzare la potenza espressiva delle parole. Solo quando lo stile si radica nel linguaggio e si rivitalizza, i contenuti sono davvero in grado di contenerci e di esprimerci, di contenere la vita, già resa cultura, sapere o conoscenza; vale a dire, essendo un’altro aspetto vitale, forse più riflessivo, forse ritenuta nel tempo grazie alla sua ascrizione nel mondo-3 di Popper.
 
Nietzsche pensò sempre con lo scopo di potenziare la vita, la sua filosofia era totalmente subordinata alla sua volontà di potenza vitale. Si trattava di porre la cultura, la filosofia e la storia al servizio del realmente vissuto qui ed ora, da qualcuno che è, anche e inseparabilmente, corpo, desiderio, pulsione… Zambrano è in questo totalmente d’accordo e, nelle conferenze da cui sono sorti i presenti articoli, Diego Sánchez Meca ha ricordato che la ragione poética zambraniana è una ragione che si muove assieme alla vita. Siamo totalmente d’accordo con lui, dal momento che per Zambrano e Nietzsche il linguaggio è coestensivo e costitutivo alla vita (seppur a volte essa desideri trascenderlo, sa che non può), almeno di quella riflessiva e cosciente.
 
Significativamente uno dei capitoli chiave di Note di un metodo ha per titolo «Identità di vita e pensiero»[49], e persino il libro ha per frontespizio[50] tre citazioni che legano desiderio e sapere; pensiero e vita; pensare, amore e verità. Le prime due – famosissime – sono dalla Metafisica  di Aristotele: «Tutti gli uomini per natura desiderano sapere» e «L’atto del pensiero è vita». La terza – bellissima – è di Antonio Machado: «Se un granello del pensare arder potesse, / non nell’amante, nell’amor[51], sarebbe / la più profonda verità ciò che si vedrebbe».[52]
 
Come possiamo vedere, persino una delle opere forse più aride di María Zambrano – Note di un metodo – che sembra incentrata in una questione epistemologica assai difficilmente tematizzabile dalla ragion poetica, è impostata a partire dall’obiettivo di unire pensiero e sapere con il desiderio, la vita e l’amore. Zambrano, in questo distanziandosi da Nietzsche, non rinuncia in nessun momento al pensare come forma profondamente umana e irrinunciabile di desiderare, di vivere e di amare. Forse la forma più propriamente umana!
 
Per questo, all’inizio di Note di un metodo e distinguendo «libro» da «volume», si propone di «render possibile l’esperienza dell’esser proprio dell’uomo, il fluire dell’esperienza, {…} come l’unità ogni volta più intima e conquistata di vita e pensiero. E così, segnalare le condizioni della manifestazione possibile e necessaria dell’esperienza inesauribile non può generare la pretesa di un pensiero che si chiude e si esaurisce in se stesso.»[53]
 
Bisogna rendere nuovamente possibile «l’esperienza, la via dell’amore»[54], dal momento che «il pensiero filosofico dev’essere reversibile»[55], afferma Zambrano. Vale a dire, in una trascendenza inversa, deve permettere di passare, camminare, seguire il «cammino» in quest’altra direzione che va dalla filosofia alla vita, dal preteso «assoluto» all’esperienza, dal sapere all’amore per il sapere. «Il cammino più adeguato, quello che l’uomo necessita, è un luogo che sia “altro” ma dal quale si possa uscire per tornare al ‘medesimo’. Quando questo si verifica, non si è già più propriamente nello stesso luogo; qualcosa è rimasto prigioniero dell’altro lato, qualcosa che non si potrà mai riscattare».[56]
 
María Zambrano definisce questo cammino come un’orbita, giacché, sebbene non torni mai alla sua posizione iniziale – cosa che succederebbe solo nel cielo perfetto delle sfere cristalline –, sì chiude il ciclo con il guadagno della dialettica che lo costituisce – come pretendeva Hegel con il suo sistema frattale del circolo di circoli –.[57] Per questo Zambrano protesta: «bisogna permettere alla chiarezza di circolare nel soggetto, dato che soltanto così il soggetto trascenderà, egli stesso, trovandosi in un’orbita: l’orbita che ci salva da ogni assolutismo dell’essere e da ogni sommergersi nel nulla. E’ l’orbita dell’amore che è del pari pensiero, l’orbita in cui si circola liberi da terrore, da tremore, e perfino liberi da speranza».[58]
 
Il cammino che rivitalizzerà al contempo pensiero e vita è un ciclo senza assoluto, senza meta, senza fine e – incluso – senza eterno ritorno dell’uguale.[59] E’ un ciclo dialettico, che rifiuta ogni sapere assoluto o superamento definitivo, per permanere – invece – nella fluente esteriorizzazione materiale piena di sfumature e contrasti vitali, che non si riducono ai freddi toni grigi dell’idea (come Hegel definiva la filosofia). E’ un ciclo che non elimina nessuna delle componenti essenziali della vita (piacere e dolore, amore e odio, felicità e infelicità, luce e tenebre…), ma che pensa – come si vive – passando da uno all’altro, dicendo sì alla vita – con amor fati nietzscheano – nel suo fluire aereo, nella sua orbita… nel ritmo, nella musica e nel divenire incessante del mondo. E prendendo appunti sotto due maestrie parallele: quella del linguaggio e quella della vita.
 
Perché come abbiamo già segnalato: fra i pericoli del «cammino dell’intelletto», Zambrano mette in rilievo come «Il soggetto, per la sua propria condizione di ergersi ad assoluto, si fa opaco. Esser opaco non significa semplicemente non esser chiaro. Anche nella chiarezza ci si può perdere. Il contrario, o meglio ciò che salva, è l’orbita che si accende e si spegne senza per questo sparire, più imparentata con il logos di Eraclito che con l’essere di Parmenide, che ci salva dalla tentazione di fare ontologia in luogo di lasciare che il pensiero fluisca, […] percorrere l’orbita, della luce e dell’ombra, creando così la penombra che salva dal consumarsi per il fuoco. La penombra è qualcosa di musicale. […] La musica del pensiero».[60]
 
E questo cammino inverso, questo metodo reversibile, che propriamente consiste nel permanere volontariamente e lucidamente «in» cammino, «nel» cammino, come un eterno pellegrino[61], è possibile perché «Il metodo si è dovuto trovare in un principio, in una certa e determinata esperienza, che per virtù di quello giunge a ottenere corpo e forma, figura. Ma è stata indispensabile una certa avventura e un certo perdersi nell’esperienza, un certo vagare spaesati, un certo vagare errabondo del soggetto in cui essa si va formando. Un vagare spaesati che sarà poi libertà»[62].
 
Prima della meta, il metodo è saper stare in cammino perfino quando questo sembra perdersi. È accompagnare la vita nel suo cammino, con la sua dialettica di chiarezze e oscurità, piaceri e dolori…, narrandola o narrandocela, adattando la sua maestrìa a quella del linguaggio. Solo così, e come per miracolo – pensano María Zambrano e Friedrich Nietzsche – , se a qualcuno vien voglia di filosofare, può dire di esservi riuscito… con verità e con stile.
Artículo de Gonçal Mayos sobre "
Zambrano e Nietzsche, il cammino del linguaggio(traduzione di Federico Sanguinetti). Original: "Zambrano y Nietzsche, camino del lenguaje in Aurora. Papeles del 'Seminario María Zambrano", Barcelona: Publicaciones Universidad de Barcelona, 2010, pp. 56-68.  

[1]Si vedano l’introduzione a Mayos, G. (ed.), F. NietzscheNihilismo: Escritos póstumos, Barcelona, Península, 2006, e l’articolo Mayos, G., “Creatividad y subversión en el lenguaje” in Analecta Malacitana, Málaga, XVIII, 1, 1995, pp. 117-126.
[2]Ringraziamo Jesús Moreno per i dettagli del suo intervento riguardo la scelta (verso la quale mostrò una certa insoddisfazione) degli scritti di Zambrano che finirono per far parte di Note per un metodo e di Aurora. Questa selezione manifesterebbe una certa volontà di riservare i testi più mistici per Aurora, nonostante permanga in Note di un metodo l’esplosione mistica dei quattro frammenti finali.
[3] M. Zambrano, Note di un metodo, Filema, Napoli, 2003, p. 35.
[4]Concordiamo con Jesús Moreno sul fatto che Zambrano avesse come progetto implicito in tutta la sua opera quello di elaborare una critica della ragione discorsiva e che non risucì a portare a termine.
[5]Nonostante l’enfasi sulla ricezione e sul «cammino ricevuto» sia soprattutto esplicita in María Zambrano, bisogna ricordare che il metodo genealogico di Nietzsche presuppone questa costituzione previa. Per questo Nietzsche arriverà a dubitare che si possa prescindere da Dio nella misura in cui non si può prescindere dalla grammatica.
[6]Non dimentichiamo che dire o nominare è far vedere; in un senso molto profondo è un atto performativo per il quale appare questa stessa realtà che si evoca con la parola.
[7]In Note di un metodo, ed. cit., p. 98, per esempio, María Zambrano afferma che il linguaggio è la «sede privilegiata di ogni pensiero».
[8]Zambrano, M., Note di un metodo, ed. cit., p. 55. Evidentemente María Zambrano si sta riferendo a Nietzsche.
[9]Zambrano, M., Note di un metodo, ed. cit., p. 18.
[10]In paradiso «Non potrebbe esistere, infatti, alcun cammino, nemmeno verso il centro. E la parola ricevuta, depositata nella creatura, è il suo essere che, in essa conservata, giunge ad essere sostanza. Forse sostanza e essenza senza discriminare. La parola conservata, pensiero divino in ogni creatura, non era ancora discesa nelle viscere. {…} La parola ricevuta bastava.» in Notas de un método, ed. cit., p. 40.
[11]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., pp. 45 e ss.
[12]Qui ci sembra necessario applicare la distinzione ontologica di Heidegger.
[13]Entrambi i termini rimandano ad una medesima etimologia e campo semantico. «Magisterium» significava in latino l’alta direzione, la guida e l’insegnamento di un «magister» (ossia, al contempo: il maestro e il capo, la guida, il comandante – colui che co-manda – ).
[14]Ovviamente non miriamo a sostenere una presunta etimologia condivisa di «maestro» e «ministro», piuttosto giochiamo con l’etimologia «magis» «más [più, N.d.T.]» di contro a «mini» «menos [meno, N.d.T.]» per distinguere le priorità quando si tratta di pensare, scrivere e usare il linguaggio. Si vedano le brevi note etimologiche precedente e posteriore.
[15]Dal latino «ministerium», «servizio»; tuttavia non si tratta di un qualsiasi tipo di «servitù», ma di un servizio di alto valore e con un feedback importante. Dobbiamo pensare che «ministro» tanto nella versione sacerdotale quanto in quella politica deriva da questo termine. A Roma, «ministrator» era il nome dato all’alto servitore che consigliava e assistiva l’oratore, o accompagnava il suo signore nel foro informandolo di chi fossero esattamente quelli con cui egli si incrociava e in che circostanze o relazioni si trovassero. Durante l’epoca feudale si riferiva al cavaliere non indipendente al servizio di un nobile.
[16]Sicuramente il pensiero di Nietzsche era meno dipendente o meno strettamente vincolato al fatto della scrittura. Sappiamo bene che – per i problemi di vista e per le terribili emicranie di cui soffriva – per Nietzsche era molto faticoso scrivere e solitamente lo faceva soltanto quando il suo pensiero era già maturo e, normalmente, dettava a «scribi» volontari come Heinrich Köselitz (per questo lo soprannominava Peter Gast, «Pietro Ospite»).
[17]Concordiamo quindi totalmente con Miguel Morey quando mette in rilievo l’importanza per la natura del pensiero zambraniano la solitudine «accademica» dei pochi corsi che Zambrano tenne. Certamente María non ha bisogno di spiegarsi pedagogicamente in classe, non deve autodivulgarsi come docente. Altrettanto poco Nietzsche dovette farlo, aldilà di una breve, giovanile e alquanto accidentata tappa della sua vita.
[18]Forse qui potrebbe esserci qualche differenza con Nietzsche. Diversi interventi hanno comunemente messo in rilievo come per Zambrano la letteratura (ovviamente la buona letteratura, sulla quale si sono concentrate le analisi di Ana Bungård) così come l’arte (maggiormente enfatizzata da Remedios Ávila) sono manifestazioni dell’originario, cioè del sacro, confermando in un senso ampio la tesi hegeliana secondo cui l’arte e la letteratura sono un’espressione sensibile del sacro (cioè del politico e del religioso). Per ciò che ci concerne, entrambe rimandano al linguaggio, che è ciò che fa pensare ed ha la funzione di esprimerle.
[19]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., p. 31.
[20]Ibidem.
[21]Op. cit., pp. 31 e ss.
[22]2a  parte, “Dell’ora più silenziosa”. D’accordo con il leitmotiv di tutta questa sezione di tutta questa sezione che mette in rilievo ciò che è silenzioso, Nietzsche – con la formula «mit Taubenfüssen kommen» – sta giocando e associando il senso di «piede» o «passi» di «colomba» e «passi sordi» (a propria volta legato alla radice «taub»).
[23]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., p. 32.
[24]Come il linguaggio, «Il tempo non è un castigo, ma, in principio, per questo essere umano – per come lo conosciamo -, la liberazione dal mero essersi, senza uscita, senza saperlo. Il soggetto ha bisogno di qualcosa che lo svegli, che gli permetta, qualora riesca a svegliarsi, di entrare nel tempo; necessita, quindi, di una mediazione, dello scorrere del tempo. Giacché il tempo ci appare come la relatività mediatrice fra due assoluti: l’assoluto che si dà ad ogni essere umano, e l’assoluto che l’essere umano porta nella sua propria condizione; quello che gli si dà, e quell’altro al quale reconditamente aspira, pur anche senza saperlo.»
[25]Op. cit., p. 32.
[26]Op. cit., p. 33.
[27]C’è chi pensa che, nonostante la sua precoce e profonda vocazione da musicista, Nietzsche non si preoccupi più di tanto della musicalità della sua scrittura e che il suo stile brillante non sia coscientemente ricercato. Abbiamo dei dubbi riguardo questa interpretazione, ma, in ogni caso, nessuno ha il minimo dubbio che María Zambrano goda di una musicalità simile e che, inoltre, sia convinta che essa sia uno dei suoi principali obiettivi.
[28]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., p. 30.
[29]Op. cit., p. 28.
[30]In modo significativo, in Notas de un método, ed. cit., p. 32, María Zambrano rileva che gli altri due tipi di cammino sono «fatti dall’uomo».
[31]Ibidem.
[32]Ricordiamo che il serpente è uno degli animali scelti come emblema da Zaratustra e che Nietzsche usa come un’importante metafora in tutta la sua opera, tutt’al più che normalmente gli conferisce un senso relativamente positivo in opposizione alla totale stigmatizzazione del cristianesimo (si cfr. Notas de un método, ed. cit., p. 39). Dice María Zambrano: «Senza dispiegarsi, nascondendosi, celando il cammino. Questo cammino che era la vera promessa che esso offriva, la condanna e il dono di cui era portatore l’enigmatico serpente, l’animale nel quale sembrano condensarsi tutti gli enigmi.» in Note de un método, p. 41.
[33]Op. cit., p. 34.
[34]«il Serpente che proferì la parola irrompente aveva la forma di un sinuoso cammino. Avvolta all’Albero della Scienza, era cifra e compedio di un indefinito cammino da percorrere: era il cammino che si offriva così senza dispiegarsi» in Notas de un método, ed. cit., p. 40.
[35]In Notas de un método, ed. cit., p. 45, María Zambrano formula questo testo in relazione a ciò che chiama il culto greco «del Tempio dell’Apollo-serpente».
[36]Op. cit., p. 29.
[37]Ibidem.
[38]Ibidem.
[39]In diversi articoli precedenti ma anche nel suo esauriente libro El logos oscuro. Tragedia, mística e filosofía in María Zambrano, Madrid, Verbum, 2009.
[40]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., pp. 84 e ss.
[41]Op. cit., p. 52.
[42]Op. cit., p, 61.
[43]Ricordiamo come Paul Celan qualifichi come sogno terribile l’aspirazione occidentale all’assoluto.
[44]Cfr. Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., pp. 67 e ss.
[45]Op. cit., p. 115.
[46]Op. cit., Notas de un método, ed. cit., p. 127.
[47]Op. cit., p. 15.
[48]Op. cit., p. 97.
[49]Op. cit., pp. 27-46.
[50]Cfr. p. 7.
[51]In Notas de un método, ed. cit., p. 57, si riferisce all’amore come «questo centro che tutto governa, molte volte senza esser notato, si potrebbe chiamare amore, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, con cui si chiude la Divina Commedia».
[52]“De un cancionero apócrifo de Abel Martín”.
[53]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., p. 11.
[54]Op. cit., nel titolo del capitolo, p. 15.
[55]Ibidem.
[56]Op. cit., pp. 130 e ss.
[57]Cfr. Mayos, G., Hegel. Vita, pensiero e opera. Barcellona, Pianeta DeAgostini, 2007. Come tutti gli scritti citati da G. Mayos, è consultabile gratuitamente nella pagina web universitaria: http://www.ub.es/histofilosofia/gmayos.
[58]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., p. 79.
[59]Nel famoso passaggio della nottola di Minerva alla fine del prologo del 1820 ai Principi della Filosofia del Diritto.
[60]Zambrano, M., Notas de un método, ed. cit., pp. 79 e ss.
[61]In op. cit., p. 18.
[62]Op. cit., p. 18.


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